Viviamo in un mondo in cui tutti siamo più connessi. Questo significa che, al di là dell’abbattimento delle distanze generato dalla nascita dei social network, oggi ognuno di noi presenta tutta una serie di esigenze molto peculiari che riguardano l’attenzione che abbiamo nei confronti di determinati oggetti e, nella fattispecie, nelle pratiche d’acquisto a distanza presentate dagli e-commerce.
Il fenomeno degli store online interessa praticamente chiunque da diversi anni. Basti pensare che anno dopo anno, essi aumentano sempre, a fronte di un aumento della domanda commisurato, chiaramente, all’ampliamento dell’offerta. Gli e-commerce o, meglio, le aziende che li gestiscono continuano ad implementare i loro servizi, in modo tale da poter soddisfare le esigenze sempre più peculiari degli acquirenti.
Tutto questo avviene in un’ottica che da una parte, spesso, premia l’ecosostenibilità, con l’utilizzo di imballaggi green e di prodotti, in generale, concepiti in un’ottica in grado di ridurre l’impatto ambientale, mentre dall’altra va a ledere profondamente la lotta contro la diffusione delle emissioni a causa del comportamento poco responsabile della clientela stessa.
Non è un segreto, del resto, che i maggior e-commerce non facciano problemi ad accettare i resi ed erogare rimborsi, soprattutto quando i prodotti vengono restituiti ancora in ottime condizioni, siccome non in grado di soddisfare le esigenze di chi li aveva acquistati. La formula di reso gratuito viene molto incontro ai clienti, ma ha delle conseguenze molto considerevoli sull’economia delle aziende e sul loro impatto ambientale.
Agli occhi del cliente il processo che lo spinge a restituire un prodotto qualora non dovesse piacergli appare semplice ed immediato, siccome almeno la sua parte lo è. In realtà, però, il rivenditore si vede, poi, costretto a seguire un iter intricato e dall’elevato impatto ambientale. L’azienda dovrà, infatti, rivalutare il prodotto, rimetterlo in stoccaggio, etichettarlo e rimetterlo in vendita, sempre che sia in buone condizioni, ovviamente.
Si tratta di un processo molto lungo, che prevede delle spese in termini economici non indifferenti e che inquina non poco. Per questa ragione, spesso i prodotti restituiti sono riproposti nei mercati secondari, con siti di rivendita appositi aperti dalle aziende stesse o su piattaforme come eBay. Amazon, ad esempio, rivende i prodotti ceduti in reso nelle sezioni Warehouse e Renewed.
La strategia attuata da alcune company per non affrontare questo tedioso procedimento è quella di chiedere al cliente di tenere il prodotto, a fronte di un rimborso totale o parziale. Questa pratica può essere vantaggiosa in alcune circostanze, sebbene in diversi casi l’oggetto finisca comunque nella spazzatura, non venendo smaltito in maniera responsabile. Il Guardian riporta che, solo negli Stati Uniti, la discarica ospiti 2.6 tonnellate di resi, con il dato che tende a salire vertiginosamente dopo le festività.
Come già precedentemente accennato, i resi possono avere effetti molto gravi sull’ambiente, non agevolando l’economia circolare quando finiscono in discarica, ma anche e soprattutto a causa della quantità d’imballaggio sprecata e dell’iter di trasporto che deve essere affrontato a più riprese. Le statistiche affermano che, ogni anno, la quantità di imballaggio gettata pro-capite in Europa è di 180 kg.
Il fenomeno si amplifica siccome molte aziende scelgono materiali plastici monouso difficili da riciclare. La logica degli acquisti compulsivi giustificati dalle politiche di reso gratuito hanno condotto ad un aumento esponenziale delle persone che, dopo aver indossato un abito o utilizzato un oggetto una o al massimo due volte, lo restituiscono esigendo un rimborso che, chiaramente, otterranno. Questo fenomeno potrebbe essere contrastato se la politica dei resi fosse sfruttata in maniera consapevole, in primis, dai consumatori.
Fonte: Cuneodice.it
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